Capranica On-Line

 

E-Mail
Contatti

Peppe Sini ricorda Vittorio Emanuele Giuntella

Materiali per una cultura della pace e della dignità umana:

Introduzione

Notizia biobibliografica su Vittorio Emanuele Giuntella

1. Una commemorazione di Vittorio Emanuele Giuntella

2. V. E. Giuntella: le pagine finali de La lotta di un popolo

3. V. E. Giuntella: le ultime parole de Il nazismo e i Lager

4. V. E. Giuntella: La memoria dell’offesa

5. V. E. Giuntella: dalle Considerazioni finali del convegno di Firenze del 1991

Vittorio Emanuele Giuntella: la Resistenza, la memoria, la nonviolenza

Considero Vittorio Emanuele Giuntella uno dei miei maestri, ed in particolare uno dei miei maestri di nonviolenza.

La breve commemorazione che qui ripubblico è ripresa da un mio opuscolo del 1997, in cui avevo raccolto tre commemorazioni per altrettanti maestri: Vittorio Emanuele Giuntella, Raimondo Pesaresi, Achille Poleggi.

Scrivevo nella nota introduttiva: "Ripubblico questi ricordi scritti alla scomparsa delle persone ritratte, ricordi già stampati su fogli locali o pronunciati in pubblici consessi.

In particolare un ricordo di Vittorio Emanuele Giuntella pronunciai, parlando a braccio appena saputo della scomparsa, in una seduta del Consiglio Comunale di Vetralla, e poi in una del Consiglio Provinciale di Viterbo. Gli scritti qui ripubblicati sono apparsi tutti originariamente nel settimanale democratico viterbese "Sotto Voce", rispettivamente (…) con il titolo Ricordo di Vittorio Emanuele Giuntella, nel fascicolo n. 40 del 17 dicembre 1996 (…). E’ consuetudine ristampando scritti d’occasione -e soprattutto quando si tratti di testi commemorativi, o giornalistici: e qui ricorrono e si sovrappongono entrambi i casi- effettuare tagli e correzioni, o anche inserire modifiche e aggiunte; ho resistito all’impulso, ed i testi sono restati precisamente quelli, con le forzature, la commozione, le ruvidezze di quando sgorgarono fuori. Forse altri canterà con miglior plettro (Ariosto, citato da Cervantes)".

Aggiungo anche alcuni brevi estratti da alcuni scritti e interventi di Vittorio Emanuele Giuntella, mi sembrano letture di grande valore.

Ai testi premetto una breve notizia biobibliografica.

Peppe Sini
responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo

Viterbo, 24 luglio 2000

Notizia biobibliografica su Vittorio Emanuele Giuntella

Profilo biografico: nato nel 1913, dopo l’8 settembre 1943, tenente degli alpini, fu uno degli ufficiali italiani che rifiutarono di servire i nazifascisti e fu internato in Lager della Polonia e della Germania. Storico, docente di storia dell’età dell’Illuminismo all’Università di Roma, costantemente impegnato per i diritti umani, è stato tra i più autorevoli rappresentanti dell’Opera Nomadi. E’ scomparso nel 1996.

Opere di Vittorio Emanuele Giuntella: autorevolissimi i suoi studi sul ’700 e quelli sulle vicende della seconda guerra mondiale, della deportazione e della Resistenza; fondamentale è il suo volume Il nazismo e i Lager, Studium, Roma 1979.

Nella rete telematica è possibile leggere, nel sito della pregevole rivista trentina "Il margine", alla pagina http://www.col.it/margine/archivio/1996/e8.htm la trascrizione di un suo intervento tenuto a Trento nel 1995, su "Lo spirito e il leviatano. Le fedi di fronte al totalitarismo".

Vorremmo cogliere l’occasione di queste righe per proporre che qualche istituzione culturale si decida finalmente ad avviare la raccolta e pubblicazione in volume di tutte le opere di Vittorio Emanuele Giuntella.

1. Una commemorazione di Vittorio Emanuele Giuntella

E’ scomparso pochi giorni fa il professor Vittorio Emanuele Giuntella.

Illustre nostro conterraneo, testimone della dignità umana: fu uno degli ufficiali dell’esercito italiano che all’indomani dell’8 settembre si opposero al nazismo e fu imprigionato in lager in Polonia e in Germania; sopravvissuto, fu per il resto della vita un testimone di grandissima autorità morale, sempre sollecito della verità storica e dei diritti umani, sempre impegnato perché non si perdesse la memoria dell’orrore e delle vittime; fu per molti anni docente di storia dell’età dell’Illuminismo all’Università di Roma, autore di libri di grande valore (tra cui una fondamentale monografia su Il nazismo e i lager), promotore e partecipe di importantissime iniziative di cultura e di impegno civile, tra cui l’Opera Nomadi che lo ebbe rappresentante autorevolissimo insieme a don Bruno Nicolini.

E’ impossibile evocarne in breve volger di frasi la grande bontà, il rigore morale e intellettuale, la lezione civile. Vorrei solo proporre due cari ricordi che ho di lui.

Lo ricordo una mattina del 1977 all’Università di Roma, ove insegnava storia dell’età dell’Illuminismo. Era un periodo di forti tensioni e passioni. In un’aula i cui muri erano gremiti di scritte truculente lui entrò quasi in punta di piedi recando un foglio di quaderno su cui aveva trascritto una frase di Gandhi che esortava alla lotta nonviolenta. La lesse, affisse al muro quel foglio, e disse "Ecco, anch’io ho fatto il mio piccolo tazebao".

Non l’ho più dimenticato, ogni volta che ripenso a quell’episodio ancora mi tocca. Mi accade di pensare in questi giorni che forse fu di lì che iniziò il mio avvicinamento sempre più consapevole alla nonviolenza, che progressivamente mi chiarì nella piena persuasione che la rivoluzione cui aspiravo e tuttora aspiro, la necessaria rivoluzione che realizzi concretamente la dignità di ogni essere umano ed impedisca che la biosfera sia distrutta, o sarà nonviolenta o non sarà affatto.

Dieci anni dopo, nel 1987, lo invitai a prendere la parola ad un incontro in ricordo di Primo Levi, che nell’aprile di quell’anno era scomparso.

Ricordo ancora con viva commozione quella giornata nella sala regia di Palazzo dei Priori, quando, tra gli altri, presero la parola persone come padre Ernesto Balducci, come Lello Perugia che fu compagno di prigionia di Primo Levi ad Auschwitz, e Vittorio Emanuele Giuntella. Dissero cose indimenticabili, ci esortavano a non cedere all’oblio, a non cedere alla violenza. Nelle loro parole Primo Levi era una presenza vivente.

Di altri incontri e di altri grati ricordi non è questo il momento di parlare, solo voglio aggiungere che sempre il professor Giuntella è stato un lucido, un fraterno, un generoso maestro. Ora so che non incontrerò più quel maestro per le strade del mondo, ma solo nell’arca del cuore.

Così scompaiono, e ad un tempo restano, i maestri che in questa vita abbiamo avuto: Primo Levi non è più, non è più padre Balducci, ora è scomparso anche Vittorio Emanuele Giuntella; ci lasciano in un mondo più vuoto e più triste, ma ci lasciano anche un’eredità, e una missione: il carico di dolore e di virtù, l’amore alla verità e alla giustizia, il testimone e la fiaccola che per lungo tratto di strada generosi portarono per tutti, ora lasciano a noi, così fragili e piccini: che si possa esserne degni.

Più luce, dicono gridasse Goethe dal letto di morte. Questi uomini hanno illuminato la nostra vita.

2. Vittorio Emanuele Giuntella: le pagine finali de La lotta di un popolo

(…) il 2 maggio 1945 anche Kesselring (il fanatico nazista, che diversi anni dopo dirà che gli italiani gli dovrebbero innalzare un monumento…), che ha trasferito in Baviera il comando delle armate tedesche in Italia, ordinerà la resa incondizionata alle sue truppe.

Le amministrazioni libere installate dai CLN in tutta l’Italia settentrionale, debbono, secondo i patti, cedere i poteri agli alleati e molto raramente questi accetteranno il fatto compiuto come a Firenze l’anno prima. Viene per i partigiani il momento della sfilata finale. C’è molta festa e molti applausi intorno a loro, ma nei partigiani la malinconia prevale, perché nei patti c’è anche di cedere le armi: "Ricordo la pagina della smobilitazione con la stessa angoscia con cui ricordo la mia ritirata di Russia. Dovremmo buttar tutte le nostre armi, come un esercito di vinti: buttiamo soltanto i ferri vecchi, i mauser, i fucili ’91. Sotterriamo montagne di armi, che lasceremo arrugginire. Nell’aria si sente già il puzzo della restaurazione" (Nuto Revelli).

E’ finita quella che Guido Quazza ha giustamente definito "una grande stagione dell’umanità". I riconoscimenti degli alleati tendono a riportarla negli schemi aridi della relazione d’ufficio: "Il contributo partigiano alla vittoria alleata in Italia fu assai notevole e sorpassò di gran lunga le più ottimistiche previsioni. Con la forza delle armi essi aiutarono a spezzare la potenza e il morale di un nemico di gran lunga superiore ad essi per numero. Senza di queste vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante e così poco dispendiosa". L’anima della Resistenza e le sue motivazioni sono altrove. Vanno ricercate altrove, per esempio nelle parole che uno dei sette fratelli Cervi, Aldo, risponde ai fascisti che offrono la vita in cambio del passaggio alla R.S.I.: "Crederemmo di sporcarci". E’ la risposta identica che molti altri resistenti in Italia e nei lager nazisti hanno dato alla stessa proposta. Resistenza è stata dunque una lotta per liberare non le case, i villaggi, le città, una intera nazione, ma in primo luogo per liberare se stessi. "Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria" lascia scritto Concetto Marchesi ai suoi studenti di Padova, "vi ha gettati tra cumuli di rovine. Voi dovete tra quelle rovine portare la luce di una fede, l’impeto all’azione e ricomporre la giovinezza e la patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla servilità cerimoniosa, voi, insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia d’Italia e costituire il popolo italiano". Ma lo stesso Marchesi, l’abbiamo già notato, accusava una responsabilità globale nella generazione contemporanea al fascismo, che si porta dentro ancora i veleni del fascismo.

La guerra di liberazione è, perciò, veramente una guerra di espiazione il cui prezzo è alto. Un partigiano ha scritto: "Consegnammo agli alleati una provincia piena di croci: sono duemila i nostri morti, fucilati, impiccati, assassinati" (Revelli). Con questi del Cuneese vi sono i 44.720 partigiani caduti in Italia; i 32.000 caduti all’estero; i 21.168 mutilati e invalidi; i 9.980 civili massacrati nelle rappresaglie; gli oltre 40.000 caduti delle forze regolari impegnate nella guerra di liberazione; i caduti identificati e quelli delle fosse comuni dei lager nazisti. Località poco conosciute, o del tutto ignote, sono passate nella geografia storica italiana: Boves, Cumiana, Fondo Toce, Cascina Benedicta, S. Anna di Versilia, Marzabotto. Di altre il martirio è meno noto, ma non meno significativo: a Ronchi 168 caduti, 148 deportati e solo 68 superstiti, 21 famiglie deportate al completo con 26 membri caduti.

La Resistenza non è solo la liberazione del paese, né si può identificare con un ritorno alle istituzioni parlamentari prefasciste. La Resistenza è stata "la sanguinosa gestazione di una Italia diversa" (Bocca). Nell’Italia diversa nata dalla Resistenza qualcosa è cambiato per sempre: classi sociali restate estranee e spettatrici (e spesso vittime) dei grandi eventi storici del nostro Paese hanno conquistato un ruolo di protagonista. Alla Resitenza non è mancata quella spinta dal basso, che il Risorgimento non ebbe.

Un partigiano di 19 anni, poco prima di morire in combattimento il primo maggio 1945, quando già gran parte dell’Italia era liberata, scriveva a sua madre: "Presto verremo giù, e vedrai che uomini giusti saremo". Il mondo migliore e più giusto, che questi uomini sognavano e per il quale sono morti, è ancora da conquistare. Ma dai monti della Resistenza sono scesi degli uomini giusti. Appartengono a una generazione che è nata dentro il fascismo, che ne porta la responsabilità storica, ma che ha lungamente e duramente espiato. La Resistenza è stata l’esperienza fondamentale e decisiva della loro vita. "Per questa generazione non v’è congedo", scriveva un tipografo partigiano delle formazioni GL, Arturo Felici (Panfilo) in un proclama da lui stampato il 29 aprile 1945. Gli uomini e le donne di questa generazione tornano alla stagione crudele ed esaltante, che fu la primavera della loro vita, con un ricordo, che non è compiacimento, né esaltazione, ma impegno e riflessione costanti; per qualcuno l’ultimo saluto: "Trenta anni fa, di questi giorni…".

[Questo estratto è da Vittorio Emanuele Giuntella, La lotta di un popolo, saggio contenuto alle pagine 195-268 del volume di AA. VV., La Resistenza italiana. Dall’opposizione al fascismo alla lotta popolare, Mondadori, Milano 1975].

3. Vittorio Emanuele Giuntella: le ultime parole de Il nazismo e i Lager

Le camere a gas di Auschwitz sono il coronamento di un processo iniziato con l’avvento del nazismo al potere, nel gennaio del 1933; sono lo sbocco logico e coerente di una ideologia che considerava il Lager come mezzo per sopprimere gli avversari e stabilire un potere e lo sterminio come atto di purificazione razziale. Auschwitz è l’emblema di una concezione perversa del mondo e del destino degli uomini e nel suo nome si compendiano tutti gli altri nomi dei Lager, che, dal 1933 al 1945, segnarono le tappe della progressiva espansione del nazismo in Europa. «Auschwitz - ha scritto André Neher - est un échec brut, dont l’âprété absolue est soulignée par ce qu’il eut d’universel».

Il carattere universale di Auschwitz, egli dice, sta proprio in questa partecipazione fisica di tanti non ebrei alla morte degli ebrei, e perciò dallo «scacco» che Auschwitz rappresentò per la ragione, nacque, dice ancora Neher, improntando l’espressione a Theunissen, la Speranza, una speranza «pleinement humaine, engrangée pour le jour de notre detresse», ma anche la speranza al di là dell’umano di Geremia, che nel crollo caotico del mondo vede l’inizio di una nuova Genesi. Il «silenzio di Auschwitz», il silenzio segnato dalla chiusura ermetica delle camere a gas, il silenzio dopo i salmi e le preghiere, le invocazioni o le grida dei morituri, il silenzio d’ogni parola umana, si apre così alla parola di Dio: «Come ho vegliato su di essi per sradicare e per demolire, per abbattere e per distruggere e per affliggere con mali, così veglierò su di essi per edificare e per piantare».

Penso nel chiudere queste pagine amare, ma aperte alla speranza, a un ignoto soldato russo, che asciugava con il suo fazzoletto le lagrime di una deportata ebrea liberata a Stutthof e le diceva parole semplici e grandi: «Non piangere sorellina. Non permetteremo più che ti facciano del male».

[Il testo che precede è estratto da Vittorio Emanuele Giuntella, Il nazismo e i lager, Edizioni Studium, Roma, prima edizione 1979, ristampa 1980, alle pagine 247-248 (qui abbiamo omesso le note bibliografiche)].

4. Vittorio Emanuele Giuntella: La memoria dell’offesa

Sono molto imbarazzato, oltre che commosso, nel prendere la parola in occasione di questo convegno, che ha delineato i diversi aspetti (storici, letterari, etici) dell’attività di Primo Levi. Sono per mestiere uno storico, ma del valore storico dell’opera di lui ha già parlato autorevolmente Guido Quazza. D’altra parte chi ha letto il mio volume Il nazismo e i lager, sa quale grande parte degli scritti di Primo Levi sono da me citati come fonte storica.

Non posso, perciò, che parteciparvi la mia emozione per essere con voi, ancora una volta in questa sala, dove tanto spesso l’ho ascoltato e, oggi, per parlare proprio del nostro comune amico Primo Levi.

Dico subito, riprendendo quel che ha affermato David Meghnagi, citando la frase di un combattente non ebreo del gruppo di partigiani ebrei, di cui ha scritto Primo Levi in Se non ora, quando?, che sono con voi una volta di più come cristiano. Perché, come disse Pio XI nel 1938, non si può essere cristiani senza essere spiritualmente dei semiti. Ma, detto questo, è chiaro che non posso e non intendo fare una lettura «cristiana» dell’opera di Primo Levi, perché sarebbe da parte mia una mistificazione.

Posso dirvi soltanto alcune mie riflessioni, di me, povero uomo, coinvolto in qualche modo, anche se molto diverso, dall’oppressione nazista. E, anzitutto, vorrei dire quello che debbo all’amicizia con Primo Levi anche per la comprensione totale dell’oppressione nazista. Ci siamo salutati per l’ultima volta in una sala di questo palazzo; parlavamo della Conferenza di Wannsee, quarantacinque anni dopo, nel gennaio dello scorso anno. Mi aveva chiesto di parlare prima di me perché era ansioso di tornare subito a casa. Avevo appena cominciato la mia relazione e lui passando mi mise una mano sulla spalla. Chiesi all’uditorio che mi lasciassero salutare Primo, perché non potevo non salutare un amico come lui. Mi girai, lo abbracciai e gli dissi: «Ricordati che ti vogliamo bene!» e fummo applauditi. Quasi un presentimento!

Ci eravamo conosciuti qui a Torino in una memorabile serata, nel 1960, a parlare, in un teatro, ad una folla di giovani (e non più giovani) della deportazione. Mi colpì in quella prima volta (e da allora tutte le volte che ci trovammo insieme a parlare) la chiarezza della sua esposizione, la semplicità del suo stile, l’assenza di risentimento personale, ma anche l’estrema nettezza, senza compromessi, o mascheramenti, della sua posizione. Il male di Auschwitz, aveva scritto in Se questo è un uomo, ha contaminato gli uomini e si è diffuso come una pestilenza e il contagio è inarrestabile se non lo si fronteggia con energia. Forse il titolo del volume che seguì a Se questo è un uomo, La tregua, voleva proprio riferirsi ad un esito, che poteva essere provvisorio.

A Torino nel 1983, in uno di quei convegni internazionali, che sono divenuti una preziosa occasione d’incontro, egli parlò della «memoria dell’offesa», argomento che riprese e allargò più tardi, «strumento meraviglioso ma fallace» perché «i ricordi che giacciono in noi, non sono incisi nella pietra», ma al tempo stesso ribadiva la perennità e la necessità del ricordo e citava le parole di Jean Améry: «Chi è stato torturato rimane torturato», e anche, «l’abominio dell’annullamento non si estingue mai». Primo Levi commentava: «L’oppressore resta tale, e così la vittima; il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da capire), la seconda è da compiangere e da aiutare», «ma entrambi davanti alla realtà bruta del fatto che è stato irrevocabilmente commesso, hanno bisogno di rifugio e di difesa». Al tempo stesso si indignava per le dichiarazioni di Darquier de Pellepoix all’«Express» e, soprattutto, lamentava la maggiore facilità di diffusione che sembra avere la menzogna.

Nella prefazione a La vita offesa, di Anna Bravo e Daniele Jalla, tornava a parlare del male oscuro di Auschwitz (non più circoscrivibile in una denominazione geografica) perché, egli diceva, «la deportazione politica di massa, associata alla volontà della strage ed al ripristino dell’economia schiavistica, è centrale nella storia del nostro secolo». Egli vedeva nell’esperienza del lager la riduzione dell’uomo alla «pura istintualità» e l’adattamento ad un livello di vita subumano, ma anche il ravvivarsi di «una forza superstite» e una «volontà non domata di proseguire la lotta», di sopravvivere per raccontare agli altri la minaccia terribile e inaudita fatta all’uomo: «se morremo qui in silenzio come vogliono i nostri nemici, se non ritorneremo, il mondo non saprà di che cosa l’uomo è stato capace, di che cosa è tuttora capace».

Da questa ansia nasce il suo impulso a raccontare: «Considerate se questo è un uomo (…) Che non conosce pace/ Che lotta per mezzo pane/ Che muore per un sì o per un no. (…) Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore». Un impegno a ricordare, detto con accento biblico: «Ricorda che cosa ti ha fatto Amalek». Ma anche il ricordo di chi è «restato uomo» anche in Auschwitz, dove il meccanismo razionale, non folle, ma lucido, tendeva alla totale spersonalizzazione. L’ex sottufficiale austriaco Steinlauf invita Primo Levi a non lasciarsi abbrutire, perché questo è quello che «loro» vogliono, e che «noi» abbiamo la libertà di negare. Questa è la suprema libertà di chi tutto ha perduto. Ricordo ancora la bellissima pagina de I sommersi e i salvati, improntata al racconto biblico che narra di Gedeone, che sceglie i guerrieri guardando come bevono l’acqua del fiume, riversi sulla spiaggia e lambendola, o in ginocchio, o in piedi, recandola alla bocca nel palmo della mano. Questa ultima libertà di restare uomo e di negare il consenso, dice l’altro grande deportato Viktor E. Frankl, è un patrimonio interiore, che si può ancora contendere a «loro».

Ricordate la figura del rabbino Wachsmann reso diafano dalla fatica e dalla fame, ma dal cui volto traspare una incomparabile forza spirituale e, perciò, è ancora vivo? E al tempo stesso il rifiuto di una sorta di «provvidenzialità» intesa, direi, materialisticamente, espresso in quella sconcertante pagina dello scampato, per quella volta, alla selezione, che prega ringraziando, e del giovane greco, che l’indomani andrà in fumo e che guarda fisso il soffitto della baracca. «Se fossi Dio», esclama Primo Levi, «sputerei a terra la preghiera di Kuhn».

Una espressione dura, che può scandalizzare solo colui che non è aduso alla durezza del linguaggio della Bibbia, il linguaggio di Giobbe, che contrasta con Dio e si arrende solo alla fine, quando echeggiano le parole divine: «Chi sei tu, o uomo…», o il linguaggio degli ebrei dell’Esodo a Massa e Meriba: «Dio è con noi, sì o no». Il linguaggio e la speranza, dice Primo Levi, dei «salvamenti biblici». Non dimentichiamo che Primo Levi ha voluto mettere al primo posto nella raccolta antologica La ricerca delle radici (1981), proprio un brano di Giobbe, che può sorprendere, ripeto, solo chi è abituato a un linguaggio edulcorato (e perciò corrotto) del suo rapporto con Dio.

Anche per questo ieri abbiamo sentito con piacere Norberto Bobbio, maestro di tutti noi, anche di chi non è stato suo allievo, dire che c’è stata una frattura tra un tempo anteriore ad Auschwitz ed un tempo del dopo; quella frattura, che ha interessato concordemente (per la prima volta nella storia del mondo occidentale) teologi israeliti, cattolici e protestanti.

Chiedo scusa se mi sono lasciato andare ad una meditazione a voce alta sugli scritti di Primo Levi. Ma anche Guido Quazza ricordava che molte pagine di Primo Levi sono «semplici e incomprensibili»; cioè, se ho ben compreso, misteriose, come quelle della Bibbia.

Urge dentro di noi tanta memoria e tanto rimpianto dell’amico lontano, ma non perduto, come ricordava quel grande rabbino della tradizione ebraica, il quale agli amici, che ne piangevano la partenza per una terra, che dicevano lontana, rispose: «Lontano da chi? Lontano da che cosa?». Perché ha scritto Primo Levi in una poesia dedicata «Agli amici» nel 1985, «fra noi per almeno un momento/ [è] stato teso un segmento/ una corda ben definita», che neppure la separazione della morte può spezzare. Così intendo, ancora oggi, il mio legame con Primo Levi.

[L’intervento qui riportato fu tenuto al convegno su «L’opera di Primo Levi e la sua incidenza sulla cultura italiana e internazionale, a un anno dalla scomparsa», promosso dall’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici nei campi di sterminio nazisti), dalla Comunità ebraica di Torino, dalla Giulio Einaudi Editore, con il patrocinio del Consiglio Regionale del Piemonte, svoltosi a Torino, a Palazzo Lascaris, il 28-29 marzo 1988. Gli atti sono stati pubblicati nel volume (a cura del Consiglio regionale del Piemonte e dell’Aned), Primo Levi: il presente del passato. Giornate internazionali di studio, Franco Angeli, Milano 1991; l’intervento di Vittorio Emanuele Giuntella, La memoria dell’offesa, è riportato alle pagine 79-82, nella nostra trascrizione abbiamo omesso le note a piè di pagina].

5. Vittorio Emanuele Giuntella: dalle Considerazioni finali del convegno di Firenze del 1991

In questo convegno abbiamo assistito a una fase nuova della storiografia sui Lager. La vicenda degli internati militari italiani è stata rivista nel quadro più vasto delle diverse comunità dei prigionieri nelle mani dei nazisti e del loro sfruttamento come elemento essenziale della politica economica di guerra. Da questo punto di vista è significativo che non vi siano state relazioni sui prigionieri americani e inglesi.

Abbiamo poi constatato la larga partecipazione di storici che non hanno fatto una personale esperienza dell’internamento e della prigionia di guerra, ma che comprendono l’interesse che hanno nello studio della storia contemporanea il nazismo, la resistenza antinazista, il risorgere della schiavitù nel centro dell’Europa e, infine, l’episodio per tanti versi anomalo, dell’internamento dei militari italiani. (…)

Il Lager degli italiani non fu un universo di vinti e di affamati; fu un mondo di resistenti, che prese su di sé la dignità e l’onore di un Paese, che aveva assistito al crollo di ogni autorità militare e civile, e lottò in condizioni che non è esagerato definire eroiche. Fu la presa di coscienza di un gruppo di italiani, che nella maggior parte aveva avuto come sola esperienza politica quella del fascismo, ma che aveva valutato direttamente e sulla propria pelle i disastri della guerra fascista, che l’imbelle retorica dei suoi gerarchi non poteva più nascondere. Nel Lager avvenne un fatto anomalo. Proprio lì, in un mondo dove era preclusa ogni volontà ed ogni scelta personale, fu chiesto agli italiani per la prima volta di esprimere individualmente una adesione, o un rifiuto, e si pronunciarono in massa per il rifiuto. Quel che ancora meraviglia è che lo stesso rifiuto fosse dichiarato dai soldati, con maggiore immediatezza, e dagli ufficiali, in campi separati e sparsi in Polonia e in Germania. Nella storia degli italiani è uno dei rarissimi episodi di una decisione collettiva presa con piena consapevolezza del rischio di morte, che comportava. Che al loro ritorno volutamente non ci si accorgesse di quel che avevano fatto è una delle manchevolezze della ricostruzione del Paese. Ci è voluto il recente caso di Leopoli, del quale ha parlato con autorità e competenza il generale Scandurra, per far scoprire questo aspetto, sconosciuto ai più, anche per colpa di chi avrebbe dovuto parlarne, della Resistenza degli italiani nei Lager: una resistenza disarmata, ma non ineme e inefficace, significativa soprattutto come affermazione di valori morali, che sono sempre da difendere, anche quando tutto il resto è perduto.

[L’intervento di cui qui abbiamo riportato due brani -dall’inizio e dalla fine- fu tenuto come conclusione del convegno internazionale di studi storici su «Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945) fra sterminio e sfruttamento», promosso dalla Federazione di Firenze dell’Associazione nazionale ex-internati (Anei), con la collaborazione dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e con il patrocinio del Dipartimento di storia dell’Università degli studi di Firenze, svoltosi il 23-24 maggio 1991 a Firenze. Gli atti sono stati pubblicati nel volume di AA.VV., a cura di Nicola Labanca, Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), Casa Editrice Le Lettere, Firenze 1992. L’intervento conclusivo di Vittorio Emanuele Giuntella, Considerazioni finali, è alle pagine 345-350].

Capranica On-Line

 

E-Mail
Contatti


ultimo aggiornamento: 22 novembre 2000
è vietata la riproduzione, anche parziale, del contenuto di questa pagina
pagina realizzata da
ICF Multimedia (c) 1997-2000.